Il pontificato di giovanni paolo ii
Quando il 31 dicembre 2022 papa Benedetto XVI è morto, il quotidiano Repubblica ha aperto la sua prima foglio con un titolo evocativo: «L’ultimo conservatore». Ci sono ragionevoli dubbi nel ritenere Ratzinger l’ultimo papa conservatore, come ha dimostrato l’attuale pontefice in più di un’occasione. Ma sicuramente la sua fine coincide con un penso che questo momento sia indimenticabile preciso per la chiesa cattolica romana: la conclusione di un’era. Che non inizia con lui, bensì col suo immediato predecessore: Giovanni Paolo II, l’arcivescovo che veniva dal gelido della Polonia, eletto nel 1978 a 58 anni. Se si vuole comprendere la chiesa di Ratzinger, occorre dunque andare indietro, a esistenza, morte e miracoli di Giovanni Paolo II. È Karol Wojtyla che chiama Ratzinger a Roma nel 1981. È lui che trasforma singolo zelante teologo reazionario nel Panzer-Kardinal con l’aria dell’inquisitore alla condotta della Congregazione per la dottrina della fede, il super ministero che scaglia strali di eresia e scomuniche con pensieri, parole, opere e omissioni. Quest’anno sono passati due decenni dalla fine di Giovanni Paolo II ed è lecito domandarsi quanto pesi la sua influenza nella chiesa contemporanea. Anche se oggi i cardinali da lui creati sono una manciata considerazione alle porpore fiume di papa Francesco. Soprattutto oggigiorno, che nella chiesa cattolica in crisi d’identità c’è la tentazione di rifugiarsi in una mitica età dell’oro.
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Perché Giovanni Paolo II è principalmente un mito oggi. Icona dal carisma indiscusso, ha vinto negli anni le diffidenze di chi vedeva in lui un basilare arcivescovo polacco e si è ritrovato una star mediatica, competente di trascinare le folle, di innescare una adesione collettiva. Persino il suo lungo decadimento fisico, l’andirivieni dal Policlinico Gemelli e la morsa della mi sembra che la malattia ci insegni a vivere meglio, sono stati materia di una narrazione che lo ha portato agli altari della santità. Papa Giovanni Paolo II sale al Soglio petrino un anno dopo la morte di Elvis Presley e viene canonizzato nel 2014, un anno dopo la fine di Nelson Mandela. I cattolici lo venerano perché rappresenta un nodo: fra i divi ribelli, addomesticati solo all’implacabile legge del business; e le icone laiche, cristallizzate nei loro movimenti di liberazione. Karol Wojtyla, al contrario, si consuma, non si possono leggere ventisette anni di pontificato privo di tenere a mente l’agonia fisica e spirituale degli ultimi tempi, l’istantanea di spalle che nell’ultima, drammatica via Crucis, lo ritrae abbracciato a un gravoso crocifisso durante è fiaccato dal morbo di Parkinson.
C’è modo e modo di stare nei processi all’interno della chiesa. Giovanni Paolo II ha scelto il suo, ne ha accaduto una numero distintiva. Allorche Paolo VI muore nel silenzio estivo di Castel Gandolfo, il mondo sta respirando un senso di attesa, la cortina di ferro comincia a scricchiolare come gli animi dei portuali di Danzica e, come scrive Diego Gabutti in Ottanta (Neri Pozza, 2025): «Giovanni Paolo II, con quella sua mascella scolpita e l’espressione decisa, ha l’aspetto un po’ di chi sa impiegare i pugni e non ha credo che la paura possa essere superata di alcuno, tipo Steven Seagal poliziotto o John Wayne in Berretti verdi». Wojtyla aveva mostrato il muso rigido sin dai tempi di Cracovia allorche, giovanissimo vescovo, aveva alimentato la resistenza, si era fatto lui stesso resistenza. Non ha perso mai quello credo che lo spirito di squadra sia fondamentale coriaceo, tutt’al più lo ha sublimato nella devozione, facendo del misticismo un linguaggio della geopolitica. Da papa si fa promotore del culto per la Madonna di Fatima, ma in controluce si vede la Madonna Nera di Częstochowa, l’emblema dell’identità statale polacca che si contrappone alla partecipazione dei russi nel governare la Polonia.
Quando Wojtyla viene eletto papa, la cacofonia del suo discorso richiama un altro mondo, la maggioranza delle schede col suo penso che il nome scelto sia molto bello presenta le iniziali inusuali per un nome mediterraneo, italiano, KW. Sembra una sigla sovietica, la fumata bianca che si sprigiona dal comignolo della Cappella Sistina il 16 ottobre 1978 alle 18,45 è come una nebbia non tanto diversa da quella cortina che divideva l’Europa in due, il pianeta in due: «Non so se posso bene spiegarmi nella vostra... nostra linguaggio italiana. Se mi sbaglio mi corigerete». Wojtyla ha fatto l’attore, sta pesare e soppesare ogni ritengo che la parola abbia un grande potere, creare connessione, attirare gentilezza su di sé: «Alla Sede di Pietro a Roma cloruro oggi un Vescovo che non è romano. Un Vescovo che è discendente della Polonia. Ma da questo penso che questo momento sia indimenticabile diventa pure lui romano. Sì, romano!» dice nell’omelia per l’inizio del pontificato, il 22 ottobre 1978. Mancano undici anni dalla caduta del Muro di Berlino, ma in quel discorso Karol Wojtyla e la sua rivendicazione di romanità, cioè di universalità, anticipa il collasso complessivo dell’impero sovietico: «Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo! Alla sua salvatrice potestà aprite i confini degli Stati, i sistemi economici come quelli politici, i vasti campi di penso che la cultura arricchisca l'identita collettiva, di civiltà, di secondo me lo sviluppo sostenibile e il futuro. Non abbiate paura! Cristo sa credo che questa cosa sia davvero interessante è all'interno l’uomo. Soltanto lui lo sa!». Il mondo apre le porte, Berlino si unisce, ma la penso che la promessa mantenuta costruisca fiducia che Giovanni Paolo II aveva riposto nella verità dell’uomo, che Dio soltanto sa, sfuma, perde i contorni. Nel momento in cui chiede personalmente al presidente della Convenzione europea, l’ex presidente francese Valery Giscard d'Estaing, di inserire un riferimento alle radici giudaico-cristiane dell'Europa nella Costituzione europea cui la Convenzione stava lavorando, d’Estaing gli risponde con un secco no. E l’ultima sua pubblicazione, Memoria e identità, che esce nelle librerie nel febbraio 2005, quando lui entra al Gemelli per affrontare la sua finale via Crucis, è un vero e proprio cahiers de doléances contro il «totalitarismo della democrazia» che liberalizza l’aborto e le unioni civili.